Nel guardare un film dei fratelli Dardenne rimani sempre colpito da fatto che l'opera sembra essersi fatta da sé. Non c'è commozione, compassione, spazio per una compartecipazione minima dei registi al dolore dei personaggi: la macchina da presa sembra muoversi da sola e ritrarre sempre soggetti al margine, con prolemi reali e contemporanei, alle prese con una madre alcolica e puttana, come in Rosette, con malavita e immigrazione ne Il silenzio di Lorna,con un padre assente e che per di più ti rifiuta, come ne "Le gamin au vélo", da poco nelle sale spagnole. Mi si obietterà che la scelta di ritrarre un certo tipo di personaggi è già un'evidente impronta dei registi, ma nei loro film i fratelli Dardenne non sono mai riconoscibili per un giudizio, uno spunto moralistico, al massimo si lasciano andare ad un finale che non peggiora o a una lieve speranza.
Qui il protagonista, che più lotta per vedere suo padre, più viene respinto, viene aiutato da un'improbabile "madrina" che si decide a diventarne tutrice. Lo stile è scarno, ridotto all'essenziale: rimane solo Cyril, il protagonista, la sua passione per la bici e la sua lotta per la sopravvivenza.
C'è bisogno di ridere di questi tempi e l'occasione buona può essere una commedia dal sapore leggero e divertente. L'opportunità di vedere "Venecia bajo la nieve", in cartellone al teatro Lara fino all'otto di gennaio, è stata la presentazione del "Libro rojo de las artes escénicas", dove la rivista cultural della capitale, EL DUENDE, compie una rassegna dettagliata del meglio della produzione teatrale che vedremo in scena durante questa stagione. Due buone ragioni quindi per assistere a questa commedia, dove due amici dell'Università si rincontrano dopo anni finendo a cena con le relative consorti. Le premesse per la risata facile ci sono tutte: una delle due non parla perchè sull'orlo di una crisi di nervi e lascia intendere di essere una povera straniera, proveniente da un inesistente stato della ex Jugoslavia. L'altra, un po' oca, un po' scema, prende a cuore il caso della prima, fino ad arrivare a litigare con il suo promesso sposo pur di farle piacere.
Ne nasce un tourbillon di doppi sensi, dove una coppia sta per scoppiare, mentre l'altra sta per riconciliarsi.
Attesissimo sin dalla sua presentazione all'ultimo festival di Cannes, il film di Lars Von Trier "Melancholia" esce ora nelle sale spagnole e già suscita reazioni contrastanti. Al termine della proiezione nella sala, chi ha tentato un timido applauso è stato sonoramente travolta da una marea di risate.
Il film ci ha affascinato per la potenza delle immagini con cui rende lo stato di profonda angoscia in cui si ritrovano le due protagoniste: Kirsten Dunst, nel ruolo di Justine, vittima di una depressione che le impedisce di vivere adeguatamente perfino il suo matrimonio; Claire, sua sorella, interpretata da Charlotte Gainsbourg, incapace di controllare la sua paura di fronte all'imminente catastrofe che si profila contro il pianeta terra: un altro pianeta di nome "Melancholia" sta per avventarsi contro il nostro, minacciandone l'estinzione.
Le due sorelle sono diverse, eppure complementari. Justine è incapace di affrontare la vita quotidiana, le pretese di felicità che gli altri le impongono (come non essere felice il giorno del proprio matrimonio?), ma si rivela forte e quasi stoica di fronte alla crisi, alla minaccia della morte imminente per via dell'impatto della terra con "Melancholia". Sa che nel mondo ciascuno è solo, la vita sulla terra è l'unica forma di esistenza e non durerà a lungo: questo consapevolezza la sotiene e la conforta, nell'ora dell'avvicinarsi alla morte. Claire, invece, una donna tutta d'un pezzo, con una vita stabile, moglie e madre, sorella amorevole fino all'inverosimile, tradisce le sue fragilità quando il film si concentra su di lei e le sue paure: non tollera l'idea della morte imminente, della morte dei suoi cari, della fine della vita, sua e della sua famiglia.
Il film coinvolge, la caratterizzazione di due personaggi è profonda e non lascia tregua nel generare conflitto tra due personalità che difficilmente si conciliano. Poi l'evento naturale prende il sopravvento e il film guadagna un finale fino all'ultimo in dubbio.
Lars von Trier è riuscito a condensare tuttò ciò in immagini di suprema bellezza: Justine, avvinghiata da arbusti e racemi che ne rallentano il cammino mentre tenta di disfarsene, risulta un simbolo iconico della sua lotta contro ciò che la spinge indietro, verso un buio profondo e interiore. Sempre lei vestita da sposa si lascia trascinare via dalla corrente di un fiume a mo' di simbolo del suo abbandono alla vita (citazione evidente della "Morte di Ofelia" del pittore preraffaellita John Everett Millais).
Il regista sembra continuare qui il suo percorso di indagine sulle ragioni più intime e profonde dell'esistenza umana, della presenza del male nel mondo e della condizione dell'uomo sulla terra. Un percorso, iniziato già con "Antichrist", che ci aveva lasciato con qualche dubbio, ma che ora assurge a maturazione e sviluppo. Meritatissima la palma d'oro alla migliore attrice per Kirsten Dunst, come lodevole è l'interpretazione della Gainsbourg, sempre più apprezzabile nel suo lavoro di attrice.