Nel guardare un film dei fratelli Dardenne rimani sempre colpito da fatto che l'opera sembra essersi fatta da sé. Non c'è commozione, compassione, spazio per una compartecipazione minima dei registi al dolore dei personaggi: la macchina da presa sembra muoversi da sola e ritrarre sempre soggetti al margine, con prolemi reali e contemporanei, alle prese con una madre alcolica e puttana, come in Rosette, con malavita e immigrazione ne Il silenzio di Lorna, con un padre assente e che per di più ti rifiuta, come ne "Le gamin au vélo", da poco nelle sale spagnole. Mi si obietterà che la scelta di ritrarre un certo tipo di personaggi è già un'evidente impronta dei registi, ma nei loro film i fratelli Dardenne non sono mai riconoscibili per un giudizio, uno spunto moralistico, al massimo si lasciano andare ad un finale che non peggiora o a una lieve speranza.
Qui il protagonista, che più lotta per vedere suo padre, più viene respinto, viene aiutato da un'improbabile "madrina" che si decide a diventarne tutrice. Lo stile è scarno, ridotto all'essenziale: rimane solo Cyril, il protagonista, la sua passione per la bici e la sua lotta per la sopravvivenza.
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