Sunday, October 28, 2012

"Amour" by Haneke

"Amour" by Michael Haneke
L'acqua rimane aperta perché lui ha dimenticato di chiuderla. E lo ha fatto nell'incombenza di dare soccorso a sua moglie incapace di rispondere ai suoi richiami. Poi lei ritorna in sé e chiude il rubinetto dell'acqua, rimproverando il marito per la dimenticanza. Con questa scena madre, lo spettatore assiste all'inizio della fine, con un gioco tra fuori campo e immagine che rende meglio delle mie parole il senso tragico di un futuro imminente. Il resto di questo "Amour", vincitore a Cannes della Palma d'oro, è una lenta, lentissima discesa agli Inferi da parte dei due protagonisti, Anne e George, costretti ad affrontare la malattia degenerativa di lei fino alla fine.
Tutte le possibili domande relative al dolore e all'assistenza verso la morte da parte delle persone a noi care sono poste dal film, che non mi sembra voglia dare suggerimento alcuno. Haneke si limita a mostrare con una freddezza chirurgica il lento evolversi degli avvenimenti, senza patetismi, nella loro reale drammaticità. Resta però il conforto del loro amore, l'unico vero bene che rimane ancora presente e vivo dopo una vita trascorsa insieme.  
La casa dove i due hanno vissuto per anni diventa per due ore lo scenario forzato del film. La musica (Anne è un'insegnate di piano) ne è il giusto supporto, ma senza essere solo un orpello decorativo. Jean-Louis Trintignat e Emmanuelle Riva sono assolutamente superbi nell'interpretazione dei due personaggi, come del resto lo è Isabelle Huppert nella parte della figlia dei due.
Il film dell'anno, da guardare con una dose di coraggio, anche per gli stomaci più delicati. 


Monday, October 15, 2012

"Reality" by Matteo Garrone

Delusione è il sentimento che ci ha sorpresi all'uscita dalla sala di proiezione del film. Delusione sì, perché questa volta il regista sembra aver perso quella forza e quella lucidità che lo avevano caratterizzato nel suo "Gomorra", che, come questo, era stato premiato a Cannes con il Gran Prix du Jury. Il desiderio di un padre di famiglia nella Napoli profonda contemporanea di essere protagonista del Grande Fratello, al punto da scollarsi completamente dalla realtà in cui vive per calarsi in quella mediatica, non basta da solo a reggere le redini della sceneggiatura (il film dura quasi due ore). Si capisce che Garrone voleva andare a parare lì, sul tema del sogno che mai si trasforma in realtà e per il quale si sacrifica molto di questa in onore di quello. Ma si tratta di un tema che già Aronofsky ha abbondantemente trasposto sullo schermo cinematografico, compresa la sua ultima prova che è valsa a Natalie Portman il primo Oscar: "The black swan". Una favola finita male che abbiamo già visto insomma. Rimane il paesaggio, l'ambientazione rustica e un po' kitsch della Napoli odierna, tra i palazzi scalcinati i cui abitanti si nutrono di traffici più o meno loschi per sopravvivere e i sogni di gloria e ricchezza mai realizzati. In questo riconosciamo un po' di noi, del carattere italiano così caparbiamente impunito e godereccio. Un po' poco, forse, per chi come Garrone ha dato prova di poter raggiungere ben altre vette. Ci aspettavamo e ci aspettiamo di più.

Tuesday, October 2, 2012

Gerhard Richter, ovvero per una pittura elevata al cubo

Gerhard Richter: Betty, 1988
Mi precipito all'ultimo giorno disponibile per vedere la fantastica retrospettiva, "Panorama", che il Centre Pompidou di Parigi ha dedicato ad un riconosciuto maestro di quella corrente definita "iperrealismo": Gerhard Richter. Anche se il maestro tedesco dichiara di " non appartenere ad alcun sistema, tendenza, programma; né di avere programmi, stile o pretese", il termine di "iperrealismo" sembra calzare a pennello alle sue opere, almeno a quella fase in cui è proprio evidente non il desiderio di emulare la realtà, ma di superarla, rendendo il quadro più vero del vero, più reale del reale. Sfido chiunque a confrontare la foto da cui egli parte per compiere il ritratto di nuca di sua figlia Betty con il quadro ultimato e a non dubitare almeno per un attimo che questo costituisca una gigantografia dell'originale. Invece no: siamo sempre di fronte ad una copia, il ritratto, che in questo caso non ha come modello la realtà, bensì un'altra copia della realtà, la fotografia. Si tratta quindi di un'operazione di pittura elevata al cubo (prendo in prestito il termine da Calvino che lo aveva utilizzato in riferimento alla letteratura), cioè di pittura che rappresenta non più la realtà ma una copia di essa. Mi viene da chiedere se il movimento sia circolare, se cioè il passaggio realtà-fotografia-ritratto, sia un movimento per ritornare al punto da cui si era partiti, oppure no, se sia un movimento teso a dimenticare quello da cui eravamo partiti, la realtà. Opterei per la seconda opzione: il quadro cioè vuole superare la realtà, proprio perché vuole sostituirsi ad essa, con tutto il rischio che questo comporta. Il rischio cioè di scambiare il quadro per la realtà, dimenticando quest'ultima. Un po' come la realtà virtuale, the world wide web, non è la realtà reale.
In questo senso, credo che Richter sia un artista più che mai contemporaneo; mentre le sue prove di tipo astratto, sanno di maniera, di desiderio di confrontarsi con stili totalmente opposti al suo per misurane la riuscita, o più semplicemente per "fare cassa".
  

Monday, October 1, 2012

"La bella addormentata" di Marco Bellocchio

Il film di Bellocchio, in concorso all'ultima edizione della mostra del cinema di Venezia, non è un film che confermerà le vostre certezze sull' eutanasia e sulla condizione terribile che essa comporta per le persone che si trovano nella scelta di decidere sulla vita o la morte di uno dei propri cari. Non è nemmeno un film che vi farà infuriare qualora voi abbiate una posizione chiara e precisa in merito. Proprio per questo suo carattere di equilibrio, di voluto e ricercato desiderio di mostrare le diverse condizione del dolore attorno a questo tema così struggente, senza necessariamente prendere posizione, indicando chi ha torto o ragione, il film merita un grande supporto e riconoscimento. Perché insinua il dubbio, proprio nel mostrare storie diverse con al centro questo denominatore comune, dove tutti sembrerebbero ben schierati pro o contro l'eutanasia, portatori di una propria verità. Non mi sono stupito della marea di delusi, né delle critiche dei più esperti di cinema che hanno additato questa cifra del film come un vizio, mentre ne costituisce la sua virtù, nonché il segno di un cambiamento nella direzione registica di Bellocchio, che sin dai suoi esordi aveva dimostrato di essere un regista con idee ben chiare e con una posizione ben schierata (I pugni in tasca, L'ora di religione). Qui siamo lontani da quell'epoca e da quella direzione registica, con un cambiamento che giova se evita il rischio di non ripetersi. Il cast, su cui dominano incontrastati Isabelle Huppert, che basta da sola, con il suo volto di madre afflitta, a creare intere scene di tormento personale, e il nostro versatilissimo Toni Servillo, senatore Pdl tormentato dai sensi di colpa, è d'eccezione. Attore rivelazione: Michele Riondino, che aspettiamo adesso di vedere in Acciaio di Stefano Mordini.