Il film di Bellocchio, in concorso all'ultima edizione della mostra del cinema di Venezia, non è un film che confermerà le vostre certezze sull' eutanasia e sulla condizione terribile che essa comporta per le persone che si trovano nella scelta di decidere sulla vita o la morte di uno dei propri cari. Non è nemmeno un film che vi farà infuriare qualora voi abbiate una posizione chiara e precisa in merito. Proprio per questo suo carattere di equilibrio, di voluto e ricercato desiderio di mostrare le diverse condizione del dolore attorno a questo tema così struggente, senza necessariamente prendere posizione, indicando chi ha torto o ragione, il film merita un grande supporto e riconoscimento. Perché insinua il dubbio, proprio nel mostrare storie diverse con al centro questo denominatore comune, dove tutti sembrerebbero ben schierati pro o contro l'eutanasia, portatori di una propria verità. Non mi sono stupito della marea di delusi, né delle critiche dei più esperti di cinema che hanno additato questa cifra del film come un vizio, mentre ne costituisce la sua virtù, nonché il segno di un cambiamento nella direzione registica di Bellocchio, che sin dai suoi esordi aveva dimostrato di essere un regista con idee ben chiare e con una posizione ben schierata (I pugni in tasca, L'ora di religione). Qui siamo lontani da quell'epoca e da quella direzione registica, con un cambiamento che giova se evita il rischio di non ripetersi. Il cast, su cui dominano incontrastati Isabelle Huppert, che basta da sola, con il suo volto di madre afflitta, a creare intere scene di tormento personale, e il nostro versatilissimo Toni Servillo, senatore Pdl tormentato dai sensi di colpa, è d'eccezione. Attore rivelazione: Michele Riondino, che aspettiamo adesso di vedere in Acciaio di Stefano Mordini.
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